martedì 14 settembre 2010

Il mulino che non macinava più - (carte estratte: 13 10 4)



Se mai vi foste trovati a percorrere il sentiero che portava verso quell'affluente del fiume dell'ovest, con molta probabilità oltre le querce e la macchia del sottobosco, sareste giunti al mulino.
Quello che avreste visto sarebbe stato un mulino ad acqua vecchio di molte centinaia di anni, che aveva da sempre macinato il frumento di tutti i paesi della contea, sfruttando un gonfio torrente che si immetteva nel fiume.
Ad accogliervi ci sarebbe stato il mugnaio, un uomo anziano e gioviale che aveva molto a cuore il prossimo; non era difficile - a dire il vero - che chiudesse un occhio con quei contadini che non potevano permettersi, costo la loro stessa salute, di saldare completamente il dazio che gli spettava per la macina.
Tendendo l'orecchio, molti passi prima di giungere, avreste sentito lo sciabordio dell'acqua che faceva forza sulle pale e più vi foste fatti vicino, il digrignare interno di pietra contro pietra vi avrebbe fatto intuire di esser ormai quasi giunti.
Ma tutto questo non era più.
Il torrente, per un capriccio del tempo, decise che non si sarebbe più fatto strada tra i campi e una siccità senza fine, si portò via il ricordo del mulino.
Senza l'acqua, la ruota non aveva di che muoversi costringendo la macina ad un eterna fissità.
Il mugnaio non si dava pace e si sentiva in qualche modo responsabile per il destino di tutti quanti, ma un giorno alla sua porta si presentò un giovine contadino con del frumento da far macinare.
Il vecchio con gran rammarico, gli spiegò la situazione: senza la forza del torrente, non era possibile far funzionare la macina.
Il contadino saltò giù nel letto del torrente ormai asciutto, vedendolo sparire al di là del parapetto il mugnaio si sporse per vedere che fine avesse fatto.
Il vecchio fece un salto tale che fini sulla schiena, quando il giovane gli sbucò davanti al viso gridando di avere la soluzione.
Portarono il sacco dentro al mulino e versarono il frumento nel largo piatto della macina, poi il mugnaio seguì il contadino sino a raggiungere la grande ruota.
E lì cominciarono l'ingegno: usare le pale come i pioli di una scala.
Fu così che da un lato il vecchio cominciò ad arrampicarsi e dall'altro lato il giovane spingeva verso l'alto, e più il vecchio si inerpicava, più il giovane spingeva.
La macina cominciò a lavorare e si sentiva da dentro il digrignare della pietra.
Il vecchio continuava a salire e ripensava a tutti i bei momenti in cui il mulino aveva funzionato spinto dall'acqua, ai capelli della sua amata, a tutti i sorrisi e le chiacchere con i contadini amici, a quella volta che aveva perso dieci monete, e al suono delicato del torrente che aveva accompagnato tutta la sua vita fino a quel momento.
Con l'aria fresca sul viso sorrise, guardando verso il cielo, per un attimo gli parve che fosse lui a manovrare i meccanismi del creato, facendo scivolare le nuvole lontane.
Poi la macina pian piano rallentò.
Il frumento era stato ormai macinato fino all'ultimo granello.

lunedì 6 settembre 2010

Nella torre di guardia - (carte estratte: 16 11 6)



Ai confini orientali del regno, sorgeva un faro di guardia costruito sui bordi della scogliera.
Il torrione di marmo bianco, era l'occhio di chi voleva raggiungere la terraferma e la luminosa voce che allertava la città in caso d'attacco.
Un solo riflesso verso la torre gemella al centro della città e un intero esercito sarebbe stato pronto a difenderne i cancelli.
Nel ventre del faro viveva una coppia di giovani sposi, perchè dai padri dei padri dei padri, era tradizione che a vegliare ci fosse qualcuno mosso da sincero amore.
Una notte senza luna, un manipolo di briganti si riunì intorno al pinnacolo per mettere in atto un sabotaggio, permettendo così al nemico di avanzare dal mare nero come la pece.
Le canaglie ebbero da subito la meglio, perchè con un sol colpo ben assestato mandarono in frantumi lo spesso vetro della lanterna scoperchiandone il tetto e mentre cominciava a piovere, le oscure navi dal mare mantennero la rotta.
Ridotti così al buio, i giovani amanti imbracciarono gli archi per rispondere ai malfattori.
Senza il baleno del faro non potevano avvertire la città, ma avrebbero venduto cara la loro pelle per evitare la sciagura.
La pioggia batteva martellante e sigillati com'erano dentro alla struttura per evitare di essere uccisi, videro ben presto dai piani bassi l'acqua che si faceva strada sino alla cima.
Maledetti gli dei! era come stare in una bottiglia con un imbuto per cappello.
Ai briganti venne un'idea che gli parve divertente, i fuochi per segnalare la loro presenza alle navi oscure, li avrebbero appiccati alla base della torre, così che le fiamme protette dalle tettoie avrebbero attecchito.
E poi l'idea di trasformare quella torre in un enorme calderone, era una tentazione troppo gustosa da farsi sfuggire.
Sulla cima della torre i due amanti si prepararono ad incoccar le frecce, ma per entrambi era la prima volta e maldestri come erano si amputarono a vicenda ognuno un braccio, l'uno il destro e l'altra il sinistro.
In quella situazione non vi era più speranza, e loro che così cara avrebbero voluto vendere la pelle, si ritrovarono fuori dalla questione senza neanche aver incoccato la seconda freccia.
Il fuoco aveva cominciato a prendere bene e tutta l'acqua che avanzava all'interno del faro si era fatta così calda, che i due rischiavano di far la fine delle patate lesse.
I due amanti si volsero l'un l'altra e decisero in uno sguardo di compiere quella che probabilmente sarebbe stata la loro ultima impresa.
Un solo braccio a testa cinse il compagno diventando un unico intreccio, si lanciarono allora proprio al centro della torre.
Nuotarono sempre più nel profondo con il bollore che gli lessava le carni, ma loro dritti nel cratere uterino, dove il nero li inghiottiva, non si persero d'animo.
Persero dapprima la pelle, poi i muscoli e le vene, infine solo la struttura raggiunse la maniglia.
Il pinnacolo si svuoto all'improvviso, quando giraron la chiave della porta principale, con le acque che sciabordavano in ogni dove.
Dei briganti non ne rimase neanche uno, spazzati via tra le sterpaglie e i legni arsi accatastati intorno al faro, finiron tutti dritti in mare ad accogliere le navi oscure, che senza un fuoco luminoso andaron fracassate tra gli scogli.
E sulla soglia, degli sposi rimase ben poca cosa, soltanto due pani d'oro ai piedi della scala di marmo bianco.

sabato 4 settembre 2010

Le gambe del fratello scapestrato - (carte estratte: 12 4 21)








Ogni essere umano, ha due gambe.
Le gambe sono assai importanti, perchè senza di esse ci troveremmo in una strizzata d'occhi a rimaner senza amici.
Mio caro lettore, senza le tue leve non potresti più far passeggiate con le persone a te care, sarebbe fuor di questione danzare con la tua controparte e ben più difficile ti sarebbe portare al pascolo il bestiame, ammesso che tu ne abbia ben donde.
La storia che ti volevo narrare, parla proprio di gambe, ma non di due, bensì di cento, mille, centomille gambe; però il due centra, poichè tutto comincia dal poco.
Vi eran due fratelli, che poi eran due gemelli e cosa ben più grave erano in corsa per il trono.
L'uno era saggio, l'altro era scapestrato.
Non fu troppo difficile per il saggio averla vinta in poco, bastò dire che lo scapestrato fosse scapestrato e avesse rubato tanti soldi; che poi anche non fosse stato vero, esser riconosciuto saggio ti largisce certi bei privilegi.
Fatto sta che lo scapestrato fini sul capestro.
Patatran! La corda si tese e a quello gli si tirò il collo.
Ma nella morte violenta, alle tue gambe qualcosa di raggelante accade e son gli ultimi spasmi che ti portano a danzare nel momento del trapasso; e quell'immagine si stampò proprio così dritta nelle meningi del fratello saggio, che ad ogni istante che chiudeva gli occhi rivedeva il fratello far balletto per l'ultima volta.
Caro lettore chiamalo come vuoi, rimorso o abitudine, ma proprio quell'immagine non gli si levava dal capo.
Ogni notte, nel suo letto, l'ormai sovrano non riusciva più a tener le gambe ferme, e muovile a destra muovile a sinistra, la notte passava tutta a far di riposo balletto.
Poi arrivarono i giorni, e quello continuava a ballare, sedeva sul trono e danzava, dava udienza e danzava, sfilava in parata e danzava; che la gente cominciò a domandarsi se volesse rubar il mestiere al giullare.
Così un po' le risa si insinuarono nel volgo, tanto che il sovrano danzerino non pareva poi più così autorevole.
Ma io ve lo avevo detto che era il gemello saggio, mica era quello finito col collo tirato; e fece allor proclamare un editto: Immantinente in tutto il regno bisognerà danzar in sempiterno.
Che ci volle prima un po' per il volgo a capir cosa volesse intendere, ma quando chiunque fu pungolato dalla spada gli venne ben chiaro.
E fu così che cento, mille e centomille gambe cominciarono a danzare, per non far sentire il sovrano messo da parte.
Che poi balla oggi e balla domani, andarono tutti in ascesi e salvazione come un buon derviscio.
Mio caro lettore, ti dico che quindi quello che era saggio non fu più l'unico; ma poi si sa che cento, mille e centomille saggi, tutti in salvazione, fan presto a lasciarsi indietro la corda, che ha distaccato l'alma dello scapestrato, dalle lusinghe del mondo.

domenica 29 agosto 2010

I dadi del mercante - (carte estratte: 0 1 20)



Il rione del mercato era sempre molto vivo, tra gli strilli dei venditori e lo stupore della gente, tutto ciò che poteva essere immaginato trovava posto sopra ai banchi.
In mezzo agli schiamazzi, vi era un nano che parlava piano piano ed invitava la gente ad accostarsi con molta discrezione, per vedere la mercanzia che aveva da offrire.
La sua mano sinistra aveva una curiosa particolarità, le dita che aveva in fila non erano cinque come quelle di tutti gli altri mortali, bensì sei.
L'affare che proponeva poteva sembrar molto conveniente e se tu fossi stato tra i suoi clienti, tra tutti gli oggetti che aveva a disposizione, avresti potuto sceglierne uno di tuo gradimento mettendo in pegno qualcosa di personale e scegliendo con cura un numero tra tre e diciotto; il nano, avrebbe tirato con la sua mano a sei dita tre dadi e se fosse uscito proprio il numero da te scelto, l'oggetto impegnato sarebbe andato perso, ma con tutti gli altri numeri, ti saresti portato via ciò che avevi desiderato.
Sul banco c'era ogni ben di Dio: pietre preziose, oli ed essenze, spezie che venivano da lontano, pizzi e merletti.
Va da sé che il nano era molto abile con i dadi, e non sbagliava mai un sol colpo, al mercato ne videro tante di persone che impegnarono ogni tipo di bene per sfidare la sorte, ed ogni volta che il mercante scaltro lanciava i suoi 3 dadi, poteva aggiungere un nuovo oggetto agli altri esposti.
Un giorno alla sua cassa si presentò un mendicante, tutto sporco dalla testa ai piedi, sui suoi stracci dei sonagli producevano musica ad ogni suo passo.
Il mercante disse: “Pover'uomo, perchè non sfidi la fortuna? Magari un po' d'oro potrebbe rimetterti a nuovo.”
L'uomo lercio rispose: “Giocherò contro di te, ma non per ciò che già possiedo. Quello che voglio è il tuo sesto dito e in cambio ti offro questi due sonagli d'oro.”
L'accattone si infilò la mano destra in una tasca del vestito lacero, e ne estrasse due sonagli rilucenti che porse al nano.
Con suo grande stupore, il mercante, notò che la mano dell'uomo aveva solo quattro dita.
Tutto intorno la gente cominciò a mormorare, ed il nano non si potè tirare indietro, pena la sua credibilità.
“Scelgo il tre” disse il mendicante “...e adesso spetta a te lanciare.”
I dadi rotolarono sul banco, li intorno si fece silenzio ed il nano trattenne il fiato, terrorizzato dal fatto che potesse perdere il suo prezioso dito.
“Tre!” gridò il nano “Mi dispiace, avete perso i vostri sonagli d'oro, signore.”
L'accattone andò via senza proferire una sola parola.
Il mercante non rimise i sonagli in gioco, ma decise di tenerli per se e ne fissò uno per ogni scarpa.
Venne la sera e raccolta tutta la mercanzia, s'avviò verso casa.
Per la strada era dolce sentire il suono dei sonagli che ad ogni passo facevano un'allegra melodia, ma quando fu un po' più buio ed il nano prese il vialetto di casa, i sonagli si staccarono dalle scarpe e come animati di vita propria, si mossero saltellando verso casa, anticipandolo di parecchi metri.
Al nano si raggelò il sangue e seguì con lo sguardo quelle due sferette d'oro che brillavano sotto la luce lunare.
Poi si fermarono a mezz'aria, immerse nel buio gli parvero come due occhi di cane che lo osservavano tra le pieghe della notte.
Poi gli occhi si mossero verso di lui e vide che appartenevano ad un molosso dal manto nero e lucido, che gli veniva incontro correndo, il nano non fece un passo fino a che il cane non gli serrò le fauci intorno alla gola; ma non fece in tempo a morderlo che fu fermato da un suono di sonagli.
Il mendicante lercio, fece un segno alla bestia che corse da lui, poi si voltò e i due sparirono nella notte.
Dalla casa del nano giunsero delle grida strozzate tra singhiozzi di pianto, il mercante si rialzò e corse verso la dimora, verso sua moglie e suo figlio di pochi mesi.
La donna piangeva e gridava, appena vide il marito disse: “Il bambino dormiva tranquillo nel suo lettino, ma dopo aver sentito un suono di sonagli a mosso i primi passi della sua vita, poi sono divenuti corsa per venirti incontro sul vialetto.”
Il mercante capì che non solo aveva perso i suoi nuovi sonagli, ma che quell'uomo lercio si era portato via il suo unico figliolo.
Decise così di fare quello che in quel momento gli parve più logico, prese un lungo coltellaccio che tenevano in cucina per sgozzar maiali e determinato si recise il sesto dito.
Il nano e la sua signora uscirono sotto il chiar di luna e nel giardino seppellirono il dito.
I primi raggi di sole che raggiunsero i due la mattina, illuminarono quel fazzoletto di terra da cui nacque un bocciolo, che da li a poco si dischiuse.
Al suo interno vi era un neonato che cominciò a strillare.
Il nano e la sua signora lo presero in braccio con gli occhi carichi di lacrime, si voltarono e rientrarono in casa.
Da quel giorno, perso il sesto dito, al nano non riuscì più un singolo tiro di dadi.

sabato 28 agosto 2010

Le sette uova - (carte estratte: 17 2 0)








Quella ragazza là, aveva un'oca.
Che poi era più un'oca selvatica che un'oca da cortile, ma la ragazza non badava a queste sottigliezze e passava molto del suo tempo a parlare con il suo pennuto.
Intendiamoci, non perchè non avesse nulla da fare, ma si sa, quando sei in età da marito, fare quattro chiacchere con un'oca può essere illuminante.
Tutti i “galli” del paese si facevano belli quando lei passava; comunque era cosa risaputa che lei fosse promessa in sposa a Rufus: un bravo figliolo, gran lavoratore, non molto sveglio e con un nome da cane.
Fatto sta che parla oggi parla domani, la ragazza divenne muta e questo non potè che far contenti i “galli” del villaggio, che pensavano ora fosse perfetta: bella per far infiammare i cuori e muta per non aver troppi rimorsi.
Rufus non ci fece molto caso alla condizione della sua futura moglie.
L'oca se ne dispiacque e disse: “Cara amica, mi addolora vederti in questa condizione, per riparare a tanta amarezza, voglio farti un regalo”
E pam... pam... pam... fino a sette depose le uova.
Ne fece sei d'oro e uno bianco, normale.
La ragazza incredula disse “...”
Si non poteva parlare, quindi raccolse le sette uova nel grembiule e si diresse verso il villaggio per andarsi a comprare una bella dote per il matrimonio.
Nei pressi del fiume che portava fino al centro del paese, le combinò un guaio quella radice al margine della strada, e patapunfete! lunga e distesa a terra che tutte le uova si schiantarono sotto il suo peso.
La ragazza si rialzò, e con un occhio chiuso ed uno aperto per non soffrire troppo a guardare il danno, aprì il grembiule e constatò.
Tutte e sei le uova d'oro si erano sbriciolate a mò di polvere, che bastò una folata di vento per perderle tutte, ed oltre al danno la beffa: di tutte e sette le uova, quello bianco e normale era rimasto integro.
Lei disse “...”
Che non vuol dire niente se sei muta, ma se avesse potuto parlare, più o meno ci sarebbe suonato in questa maniere “Che danno! Ed ora mi rimane solo un uovo ed un vestito sporco per dote.”
Tutto il vestito impiastricciato d'uovo, così si accostò al fiume dove non la si poteva vedere e si levò tutti i vestiti, li lavò e poi li stese sui dei rami li vicino ad asciugare.
Che fare a quel punto, si sdraiò giù nel prato con l'uovo in mano e si appisolò.
Da dietro un cespuglio, che aveva visto tutto, sbucò fuori quell'uomo pazzo con tanto di barba e capelli lunghi fino ai piedi, che tra un grugnito e l'altro si prese tutti i vestiti della ragazza.
Lesto si infilò le mutande, la gonna e la camicetta, tutto sopra a barba e capelli, e se ne scappò di corsa verso il villaggio così abbigliato.
La ragazza si svegliò e si trovò senza nulla da poter indossare, prese su l'uovo e pensò: “Io così conciata al villaggio non ci posso più tornare.”
Così decise di andare a chiedere asilo alle monache del monastero li vicino.
Quando la badessa la vide così, nuda e con l'uovo in mano, ci rimase di sasso e disse: “Sia lodato il signore Dio nostro! Tu sei la Vergine pura, di cui ho letto nelle scritture. Sarai la nostra Madonna che porta buone nuove.”
Così la presero, la vestirono da capo a piedi, con tunica, mitra in testa, ori e preziosi, e la posizionarono su un bel seggio al centro del monastero.
Tutto un via vai di monache dal mattino alla sera, chi le chiedeva quanto è buono il signore, chi le chiedeva che preghiera recitare, chi le chiedeva quanto è giusto l'amore per i poveri, chi le chiedeva un po' di tutto.
La ragazza rispondeva cortese ad ogni domanda.
Si, intendiamoci, rispondeva “...”
Però le monache sembravano soddisfatte.
Passarono sette anni e oramai le domande cominciavano a scarseggiare, ci voleva proprio tanta fantasia per trovarne di nuove.
Al villaggio, l'uomo pazzo con i vestiti da donna, che ormai si era maritato con Rufus - io ve l'avevo detto che non era tanto sveglio - stava per preparare una frittata con sette uova.
Ne aprì una, poi un'altra poi un'altra ancora, ma si accorse che ne aveva solo sei.
La ricetta diceva sette uova, né una di più né una di meno.
All'uomo pazzo gli venne in mente che sapeva dove aveva visto il settimo uovo, così diede un bacino a Rufus, barba contro barba, e se ne scappò con la ciotola con le sei uova sbattute dentro, fino a raggiungere il monastero.
Entrò e si diresse subito alla sua meta, prese l'uovo bianco della ragazza e lo ruppe sulla ciotola.
Dall'uovo usci: il tuorlo, l'albume e la voce che la ragazza aveva perso sette anni prima.
“Hei tu pazzo! Ridammi i vestiti!”
Le monache che sentirono questa parlare, si presero un gran spavento e le requisirono subito gli ori, i preziosi, la tunica e la mitra, con il dubbio che fosse una male intenzionata.
La ragazza si prese lesta i suoi vestiti e la ciotola con le sette uova per fare la frittata, e scappò di corsa a casa dal marito.
Il pazzo con barba e capelli lunghi fino ai piedi, rimase li immobile a grugnire com'era suo solito fare.
Morale della favola lo misero seduto sopra al seggio, pensando fosse il Cristo.

giovedì 26 agosto 2010

Il trono della sovrana - (carte estratte: 15 14 3)



Seduta su un trono stava una sovrana.
Ogni mercoledì i sudditi le andavano a fare visita, chi per chiedere aiuto, chi per sentire una parola di conforto, chi per fare una riverenza, ma la maggior parte chiedeva udienza per ammirare il trono di legno d'acacia intagliato, sul quale era seduta.
Il seggio si diceva fosse stato inciso dai migliori falegnami del regno, centinaia di anni prima che lei vi si adagiasse, e nonostante fosse di un legno umile, il colore dorato delle fibre di acacia lo facevano sembrare d'oro.
Benchè riparato da un sottile tulle di color azzurro, si riuscivano a intravedere i sofisticati intagli che raffiguravano migliaia di piume, formare due balze alle spalle della sovrana.
La signora era molto amata, le sue parole erano sempre delicate e non aveva mai dato troppa importanza a questioni di etichetta, ma i suoi occhi mostravano un velo di afflizione.
Aveva un parrocchetto, che lasciava libero di volare per la stanza, il più delle volte le stava aggrappato all'avambraccio e lei con l'indice della mano sinistra di tanto in tanto gli lisciava le piume del capo.
A pensarci bene la sovrana, che pareva così candida, forse un qualche mistero lo celava: nessuno l'aveva mai vista alzarsi dal trono.
I maligni sostenevano che non volesse privarsi del pregio del suo piedistallo; altri dicevano che sotto la lunga veste che le copriva le gambe fosse priva degli arti inferiori, strappati a morsi da due serpi in amore; qualcun altro credendoci un pò più fermamente, diceva che la testa dei potenti pesa il doppio di quella di un contadino.
A forza di sentire tutti questi pareri uscire piano tra i denti di chi faceva visita alla sovrana il mercoledì, una guardia decise che avrebbe svelato una volta per tutte il segreto della signora.
Aspettò la fine della giornata, quando la gente usciva dal salone e le porte venivano chiuse alle spalle dell'ultima guardia, per nascondersi dietro ad una colonna e osservare.
Solo pochi minuti dopo che il pesante portone si chiuse, la sovrana si alzò ed il tulle azzurro scivolò verso terra, portandosi con se le certezze della guardia di voler svelare il mistero.
Le piume intagliate nel trono si distesero e due possenti ali si sgranchirono per esser state ferme tutta la giornata, oltre i tre scalini non vi era più nessun trono, ma solo la signora che raccoglieva a se le ali sul quale era stata seduta tutto il tempo.
La guardia per lo stupore lasciò cadere a terra la lancia che aveva faticosamente retto ogni mercoledì, lo schiocco lo rivelò agli occhi della signora.
I loro sguardi si incrociarono per un istante, gli occhi increduli della guardia incontrarono quelli tristi della signora, che in un frullo d'ali spicco il volo e lasciò il salone da una volta aperta.
Nessuno la vide mai più.
I maligni sostenevano che fosse una strega dagli occhi gialli; altri dicevano che fosse un angelo caduto in terra; qualcun altro credendoci un pò più fermamente, diceva che le ali dei potenti volano più lontano di quelle di un contadino.
Ma solo una cosa fu certa, il parrocchetto non trovò mai più un altro avambraccio sul quale posarsi.

Il diavolo che faceva il sarto - (carte estratte: 15 11 20)



Quenzo tra tutti i diavoli minori era di sicuro quello più elegante.
Aveva passato tutta la sua esistenza a svolgere la professione di sarto cucendo abiti per gli altri diavoli, ma il vestito più bello lo stava confezionando per se.
La materia prima non mancava, con pelli umane faceva rotoli di stoffe, le arterie erano degli splendidi fiocchi se venivano trattate nel giusto modo, le ossa affettate per bene diventavano ottime asole nelle quali far passare occhi come bottoni.
Per non parlare poi dei capelli, delle lingue e delle unghie; erano talmente tanti i pregi dell'organismo umano che ne avrebbe decantato le lodi per ore.
Arrivò infine il giorno in cui il suo abito era quasi pronto, mancava solo un ultimo piccolo tocco di classe, un bel paio di gemelli fatti con due teste: su una manica l'uomo e sull'altra la donna.
Dispiegò le agili ali e con un sol colpo di reni fu abbastanza in alto per trovare da quella posizione di vantaggio una coppia di sposi che facesse al caso suo.
Ed eccoli li, piccolini tra le tombe: un becchino e la sua signora.
Quenzo fu lesto e con le braccia forti li agguantò, portandoli con se più in basso di quanto loro non avessero mai scavato.
Nel giro di sei respiri, i malcapitati si ritrovarono due solide corde strette intorno alla gola, tese a tal punto che i colli si erano assottigliati come due mignoli.
Il diavolo prese le forbici pronto a far saltare le teste.
L'uomo che in quella stretta situazione non poteva parlare, disse con le mani "Ho una sfida da proporti e se vinci, la tua soddisfazione di farci saltare le teste sarà maggiore."
Mai sfidare un diavolo, poichè solitamente accetta.
Quenzo sciolse i lacci e porse l'orecchio all'uomo, che disse: "Io diavolo ti sfido ad una prova di forza contro la mia signora"
La donna, che era minuta come un filo d'erba e leggera come una piuma, fece un sorriso alla bestia.
Quenzo disse: "Fin troppo gracile per pensare di poter vincere un diavolaccio della mia stazza, ma se questa è la vostra ultima parola, sarò lieto di accontentarvi"
Il diavolo decise che non sarebbe stato abbastanza divertente sconfiggere la donna impegnando tutte le sue membra, così si staccò di netto le ali scattanti e le piegò sino a farle diventare il corpo agile di una fiera, poi fece altrettanto con le braccia possenti e le mise a mò di testa della belva, creando fauci poderose con braccia e avambracci, e delle dita fece una fluente criniera.
Il leone pronto ad attaccare la minuta signora si fece grosso e minaccioso, ma lei che per un'intera vita aveva scavato sepolcri era ben abituata a comunicare con le creature del profondo.
Bastarono poche parole dolci, quelle giuste, che la fiera era pancia all'aria desiderosa di coccole.
L'uomo fu lesto a far scattare il giogo intorno alla gola del diavolo ed altrettanto svelto fu ad usare le forbici di Quenzo per metterlo a nudo.
Povero diavolo!
Perse così ali e braccia, e incatenato per la collottola non proferì parola mentre guardava i due mano nella mano allontanarsi, seguiti dalla terribile fiera ormai innocua come un gattino.

martedì 24 agosto 2010

La lanterna dei pensieri storti - (carte estratte: 16 9 20)



L'uomo dal cuore d'acqua camminava ogni giorno tra le querce secolari del bosco, aveva compiuto 9 volte 9 anni, ma fare lunghe passeggiate non lo spaventava.
Per tutta la sua vita aveva coltivato l'abitudine di conservare i ricordi in una lanterna magica, così da poterli rivedere proiettati su un muro ogni volta che ne aveva nostalgia.
Un giorno mentre stava raggiungendo una radura, assorto a contemplare la natura, si ritrovò gambe all'aria dopo che una tromba gli squillò in un orecchio.
Da un cespuglio saltò fuori un bambino di poco più di 6 anni, soffiò di nuovo nella tromba e poi scappò via divertito.
L'uomo recuperò la lanterna magica che era rotolata a terra e solo quando si apprestò a rivedere i suoi ricordi si accorse che erano tutti rimescolati.
Acquisì così la capacità di riconsiderare tutta la sua vita da una nuova prospettiva.