martedì 25 giugno 2013

Una sana invidia - (carte estratte: 8 0 11 - tiraggio di Michele C.)



Per invidia ho rotto tutte le spade di tutti i cavalieri del castello.
Non sapevo combattere, ma avrei voluto.
Le ho rotte a mani nude, stringendole tra i pugni le ho piegate come ramoscelli.
Non ci avevo pensato troppo su, forse se l'avessi fatto avrei messo in considerazione il farmi male. Eppure niente. Neanche un graffio.

Il problema che si pose allora - e che capii ben presto essere una regola - era che tutto ciò che rompevo mi rimaneva attaccato addosso finché non rompevo qualcos'altro. Solo a quel punto era l'altra materia a rimanermi appiccicata.

La prima cosa che ruppi, come vi ho già raccontato, furono le spade e il motivo di tutta quella forza compresi ben presto fosse l'invidia.
Poi ruppi degli orologi preziosi, che presero il posto delle spade sui miei vestiti, infine passai ai servizi buoni.

Si invidia ciò che non si ha, ed era divertente vedere che ciò che non avevo poi diventava una decorazione sui miei calzoni, sulle casacche ed i cappelli con le piume.
A questo punto fu difficile riuscire a nasconderla l'invidia.
Se quel qualcosa che avevo fracassato, la gente me lo vedeva addosso, sapeva che era stato rotto nel peccato.
Mai sentimento così tanto disprezzato divenne ben voluto, tra gli sguardi di chi l'invidia l'aveva per me, ma non gli generava forza ma solo eccesso di bile.

Ora che i cavalieri non avevano più spade, venne a me l'incarico di proteggere chicchessia dalle grane che lo investiva, così che per essere paladino dovetti imparare ad invidiare il mio nemico su comando.
Fintanto che si trattò di invidiare condottieri, ricchezze ed altre maledette meraviglie che fanno gola all'uomo, mi sembrò fin troppo facile.
Guardare fisso un cavaliere mentre avanzava, immaginare quanto si sentiva protetto nella sua armatura mentre io me ne stavo senza cavallo ad aspettarlo, mi generava una buona dose di sana invidia.
Con pochi sganassoni lo sbullonavo completamente, ritrovandomi con la sua armatura addosso.
Ero l'unico a riuscire a farlo.

Chi invidiava questa mia condizione non riusciva ad assestarmi altro che un tenero buffetto e non è cosa troppo astrusa venire a sapere che tra le fila nemiche si facevano addirittura esercizi d'invidia, sperando di poter così eguagliare quella mia strana condizione.
Niente da fare.
Poi però venne il giorno in cui mi chiesero di sconfiggere la tempesta, ma io non ne fui in grado.

Per quanto mi sforzassi di volerla tirare giù a forza di fendenti, non riuscivo ad invidiarla.
Mi pareva che fosse solo acqua, solo grigia e cupa condensa, e chi sano di mente può voler acqua fredda addosso, invece di una solida armatura?

Il popolo mi incitava, speranzoso di farmela a tutti i costi piacere esaltandone la forza divina, la maestosità e il chiasso che faceva, mentre quella per non essere da meno spazzava indisturbata via i tetti della case, riempiva le torri del castello come brocche e faceva affogare cristiani e bestie insieme.

Eppure, nonostante fosse lusighiero pensare di poterla indossare, non mi veniva da invidiarla, perché mi sentivo già bagnato, perché avevo freddo e perché semmai proprio qualcuno mi sentivo a quel punto di invidiare, era chi la propria invidia la poteva ancora esercitare senza per forza essere messo nel mezzo.
Li avrei potuti fracassare tutti in quel momento, levando il problema della tempesta alla radice, ma non mi andava di ritrovarmeli poi addosso.
Via in un solo colpo tutti quelli che adesso invidiavo.
Tutti quanti tranne me, che non invidiavo affatto.
Realizzai allora che non mi ero mai invidiato.
Mai fino a quel momento, l'istante in cui invidiai il non provare invidia per qualcuno o qualcosa.
E visto che trovavo che mi stessi bene addosso, fu così che mi frantumai a suon di schiaffi.

giovedì 6 giugno 2013

La bottega del senso - (carte estratte: 1 13 17 - tiraggio di Daniele R.)



Nella bottega del senso non c'erano candele. Anche in una giornata d'estate, dentro c'era sempre penombra.
Il nome per i più suonava ingannevole e visitavano quel bizzarro luogo, solo pensando di poter trovare un senso alle cose, restando però puntualmente delusi quando si rendevano conto che lì ad aspettarli c'era solo un buon tuttofare che riparava gli oggetti.

Donato, così si chiamava quell'uomo, aveva una sua personale filosofia, credeva che se qualcosa funzionava "è un buon segno" e che un buon segno potesse dare senso a ciò che egli stesso faceva.
Per questo l'aveva chiamata così e forse a conti fatti, la bottega del senso serviva solo a lui, fiducioso com'era che tanti "buoni segni" messi in fila potessero tracciare una rotta.

Dopo un primo momento di smarrimento, ogni persona che si ritrovava nella bottega, forse per paura di esser presa per pazza facendo domande sul senso delle cose nel luogo sbagliato, si sentiva in dovere di dare qualcosa da riparare a Donato.
Del resto chi non si è mai sentito sciocco per essersi sbagliato in una qualche situazione?
Provate ad immaginarvi anche solo per un istante, mentre entrate in un macello pensando di trovarvi una sartoria. Convinti profondamente che lì si vendano camicie, non uscireste da quei luoghi con almeno due braciole sotto braccio?

Così per la stessa ragione, chiunque si trovava di fronte a Donato pronto a sentire quale fosse il suo proprio senso, in una sorta di inversione di marcia fatta all'ultimo momento, all'improvviso si sentiva in dovere di metter sotto al naso del bottegaio quello di rotto che aveva con sé, magari un orologio fermo, una scarpa col buco, un orlo da rifare o delle lenti malferme sulla montatura.
Ed è così che a pensarci bene, senza la bottega del senso e senza essersi trovati nel posto sbagliato a ringoiare domande senza ragione, ognuno di loro avrebbero continuato ad arrivare in ritardo, ad avere i piedi doloranti, gli occhiali sbilenchi e chissà quali mille altre cose che non potevano altrimenti trovare un senso.
E riparando le cose, Donato continuava a scivolare dolcemente verso nord.